Trisungo, soprendente borgo della via Salaria
Il piccolo borgo di Trisungo sorge lungo la via Salaria, in prossimità del bivio per Arquata del Tronto a circa 600 metri di altitudine. Disteso sulle due rive del fiume Tronto, il piccolo centro potrebbe derivare il suo nome dalla caratteristica di essere congiunzione di tre diverse strade oppure dalla sua originaria divisione in tre rioni.
Trisungo, il cui territorio è inserito all’interno di due diversi parchi (quello del Gran Sasso e Monti della Laga e quello dei Monti Sibillini), è conosciuta non solo per gli aspetti naturalistici ma anche per i piccoli tesori che custodisce nel borgo storico.
NB Il borgo di Trisungo, come tutti quelli lungo la via Salaria tra Amatrice ed Acquasanta, è stato pesantemente colpito dagli eventi sismici del 2016 e 2017. Molte delle cose qui descritte sono rimaste danneggiate e non sono dunque attualmente visibili.
La frazione, per la sua posizione lungo la via consolare che da Roma arriva a Porto d’Ascoli, ha avuto una storia significativa. Basti pensare che il nucleo originario Trisungo è identificabile proprio nella adiacente località di Centesimo la “statio Ad Centesimum” (stazione di sosta al centesimo miglio da Roma) della Salaria, millenaria strada di commercio, di migrazioni, di spedizioni militari.
E proprio nella località Centesimo, il 15 gennaio 1831, fu rinvenuto nel letto del fiume Tronto uno stupendo reperto di epoca romana: un rocchio di colonna in travertino datato 16 a.C.
Il cippo miliare, che ora è ben visibile, murato sulla parete di una casa medioevale, documenta un Senato Consulto con cui Augusto dispone un restauro della via lungo la Valle del Tronto. Il manufatto, a forma di colonnetta, alto 70 cm, e con una sezione poco più piccola, aveva lo scopo di esprimere la distanza progressiva dal punto di origine della strada. L’iscrizione riportata sul travertino è ancora chiaramente leggibile:
IMP. CAESAR DIVI F. AUGUSTUS COS. XI TRIBV POTEST.VIII X.S.C. XCIIII |
Dalla strada Salaria si accede al borgo di Trisungo grazie ad un bel ponte lapideo che collega le due sponde del fiume Tronto.
Il ponte, ad unica arcata di forma ellittica ha una struttura muraria a sacco con un paramento in pietra arenaria a conci squadrati. La sua costruzione risale al periodo 1860-70.
La Chiesa di Santa Maria delle Grazie, ultimata nel 1585 per volere delle numerose famiglie Petrucci (cognome ancora oggi molto diffuso) residenti a Trisungo, affiancò nel culto la chiesa di San Giacomo che, oltre ad essere troppo piccola, era edificata sul lato destro del fiume e quindi richiedeva ai residenti del Rione Ponte il guado del fiume in ogni stagione dell’anno.
L’edificio, ad una sola navata, ha un portale in conci di pietra arenaria locale del XVI secolo con semplici decorazioni del ‘400.
Pregevole il campanile, pure in arenaria.
L’interno dell’edificio ha subito nei secoli numerosi (e talvolta arrangiati) rimaneggiamenti, anche per via dei danni provocati dalle piene del fiume Tronto, che scorre a pochi metri.
Sopra l’altare è visibile una notevole tela ad olio di Filippo Ricci raffigurante una Madonna in trono con Bambino, tra i santi Giacomo Apostolo e Francesco d’Assisi. Sull’opera, in gran parte non più originale a causa di un restauro amatoriale, rimane ancora chiaramente leggibile l’iscrizione: “Philippus Ricci pinxit firmi 1761”. Grande è la devozione degli abitanti del borgo di Trisungo per questa immagine: secondo una narrazione popolare, infatti, di fronte ad una preghiera rivolta con profonda fede, l’apparizione di un sorriso della Madonna manifesterebbe la concessione della grazia richiesta.
Nel 1832 sulla parete di sinistra fu aperta una nicchia per ospitare una tomba gentilizia. Successivamente ne fu aperta una seconda per accogliere un altare ligneo dedicato alla Madonna Addolorata ed al Cristo Morto.
Nel 1932, durante i lavori dell’ennesimo restauro, furono riscoperti sette affreschi, probabilmente del XVII secolo. Di particolare interesse artistico è quello centrale della parete di destra, raffigurante sant’Antonio abate benedicente. Il santo ha il simbolo del Tau sulla pellegrina gialla e la campanella sul pastorale. Oltre alle greggi ed agli altri animali dello sfondo, in basso spunta anche il muso di un maialino. Sotto la cornice è ben visibile la scritta “Tempore Revenni Pietragnili Petruttii”.
Accanto a questo affresco, vi è quello raffigurante san Giovanni Battista con la scritta: “Questa Op. A. F. Fare Jovan Vincenzo De Iovano P. Voto 1595”.
Gli altri affreschi riconoscibili raffigurano la Madonna con Bambino, sant’Agostino, san Pietro (con la chiave) e san Paolo (con la spada).
Nel Rione Ponte si trova la casa più antica del borgo di Trisungo, del 1500.
Purtroppo in stato di abbandono, l’edificio conserva molti elementi riconoscibili: davvero curiosa la civetta che regge un architrave, bellissimo il viso di un angelo, pregevoli le lunette sopra gli ingressi di caposcala, di cui una ancora con tracce di affresco, di grande interesse lo scudo murato che riporta chiaramente la data 1515. Sui conci di arenaria sono ancora ben visibili alcune finiture scultoree che ben danno idea dell’importanza dell’edificio nel contesto del piccolo centro.
Numerosi altri angoli del borgo a Trisungo riservano sorprese al visitatore. Decorazioni sulle pareti di abitazioni private, antiche insegne, loggette, cortili, camminamenti: Trisungo è un piccolo scrigno di segni preziosi del passato legati alla via Salaria.
In questa continua scoperta ci si sorprende davanti ad un sopravvissuto balcone in legno, tipologia costruttiva riconducibile al gafio longobardo, piuttosto diffuso nelle abitazioni della montagna appenninica già dal XVIII secolo ma oggi quasi del tutto scomparso. Il balcone, costruito in resistente legno di castagno, poggia le sue assi su montanti, sempre in legno, murati direttamente alla parete. Il termine dialettale che indica il manufatto è “bbuffiri”: secondo alcuni storici locali il vocabolo deriverebbe dalla parola “profernum”, che in latino medievale indicava il ballatoio su cui venivano appese ad asciugare le lavorazioni in lana.
Nella stessa stradina si potranno vedere altri originali utilizzi del legno nelle costruzioni: dalla travatura di solai e coperture alla struttura portante di scale e scalette, fino ai grandi cancelli dei granai e delle legnaie sopraelevate.
Nella campagna di Trisungo sulla Salaria Alighiero Castelli raccolse “Il pellegrino”, leggenda popolare in versi dialettali, poi stampata nel 1896 nel suo periodico “Vita Popolare Marchigiana”.
Il Pellegrino
C’era ‘nu patre e ‘na matre, avé ‘na figghia e andava a San Giacomo de Galizia: se fermarono là da ‘n ‘osteria: disse a la figghia -Va rifare il letto,dò va li pellegrine a reposare –- O mamma mamma, non posso soletta ‘n posso buttà coperta sopra ‘l letto –Glie respose ‘l figghie del pellegrine:- Andamo, ca ce voglie venì io – – O donna donna, a me no’ me toccare co’ disonore avesse da calare – Prese ‘na tassa e la mise ‘n saccoccia
O mamma mamma , te do brutta novella
s’hanno rubata chella tazza bella,
chella che era bella ‘ncoronata: ‘l figlie del pellegrì se l’ha rubata –
O figghie figghie, avisse fatte queste,
te merteriste d’essere ‘mpiccate –
Passate che fu ‘n anne e tre giorni,
quanne tornava, se sentì chiamare:- Checche, sente chiamà ‘n quello faggetto dove lasciammo quel figliuol soletto –
Francesca mia, attendi a camminare
la vogghia fa tue fighie vaneggiare — Anch’io sente ‘n voce dal faggetto dove lasciammo quel figliol soletto –
O babbe, andate da lu Podestà.
dice che la condanna la ragione – Lu Podestà sta a pranze a spezza un galle:
O Podestà, che te pòzze fa prode,
faccia de re deventa ‘mperatore:
lu mie figliol l’hanno ‘mpiccato a torte,
sta lì le forche vive e non è morte — Sciocca quanne stu galle canta e vola………………E quille galle pe vertù de Diese misse ‘n terra e cominciò a cantare –
Vanne a chiamare la figghia dell’oste –
O pazzarella pazzarella matta, come passa la cosa de la tassa? –De queste te lu diche, signor mie: era un giovene belle e me piaceva; la tassa ghie la mésse pe la via
–- Che sse mertarebbe la tua faccia bella? De farlu ‘nu casscì ‘n miezz’ a la terra, Che sse mettarebbe la tua faccia cara? De farlu ‘nu casscì ‘n miezz’ a ‘na piana
– Prima che se faccia ‘ssu casscine, vogghie vedé lu figghie del pellegrine
Sull’analisi del testo si è esercitato Bernardo Nardi nel 1983 con un articolo sulla rivista Flash Mensile di Vita Picena. Il testo è sicuramente una rielaborazione di varie tradizioni orali antiche, giunte a fondersi senza troppo badare alla coerenza dell’insieme.
La leggenda racconta di una famiglia in cammino per il lungo pellegrinaggio che la porterà a Santiago de Compostela. Una sera si ferma ad un’osteria per trascorrere la notte. La locandiera manda allora la figlia a preparare la camera per gli ospiti. Ma questa, invaghitasi a prima vista del bel figlio del pellegrino, cerca l’occasione per rimanere sola con lui; dice perciò di aver paura di salire sola al piano superiore e fa in modo che il giovane la accompagni. Una volta soli, cerca di persuadere il giovane a stare con lei. Vistasi però rifiutata, decide di vendicarsi e nasconde nella tasca dell’ignaro ragazzo una tazza di valore. Qui Nardi azzarda anche una interpretazione traslata della “tazza” che, nella parlata dialettale, può rappresentare l’organo sessuale femminile, entrando dunque nel linguaggio dei sottintesi. La storia prosegue: la ragazza, offesa, accusa il giovane del furto. Il ragazzo è arrestato ed impiccato ad un faggio. Passano un anno e tre giorni e la famiglia torna a casa dal pellegrinaggio in Galizia. Ed ecco che, proprio di fronte all’osteria maledetta, sente provenire dal faggio la voce del ragazzo, che svela come sono andate le cose. Dopo un primo momento di sorpresa, i genitori del giovane innocente corrono dal Podestà e pretendono giustizia, affermando di aver udito la voce del figlio giustiziato. Il magistrato, che siede a tavola e sta proprio per azzannare un galletto arrosto, ride e dice che la vicenda è assurda così come è impossibile che quel galletto possa tornare a cantare. Ma improvvisamente il gallo balza in terra e si mette a cantare. Viene condotta dinanzi al Podestà la “pazzarella matta”, causa della tragica vicenda. La sciagurata, messa alle strette dal miracolo, è costretta a confessare di aver accusato ingiustamente il giovane. Merita quindi di essere messa al rogo in mezzo alla campagna ma, prima, dice di voler rivedere il figlio del pellegrino. La storia si interrompe bruscamente, lasciando al lettore il finale che più preferisce.