Francesco d’Appignano, il ribelle
Fra Francesco Rosso (anche conosciuto come Frater Franciscus Rubeus de Apponiano, Franciscus de Esculo e Franciscus de Marchia) nasce in Appignano (oggi Appignano del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno) intorno al 1290.
Su Francesco d’Appignano si è fatta non poca confusione, poiché gli antichi cronisti hanno parlato di tre persone con i tre nomi precedenti: oggi l’unicità di attribuzione è definitivamente riconosciuta.
Tra i vari appellativi, gli studiosi hanno a lungo utilizzato de Esculo, cioè di Ascoli, in quanto questa attribuzione si trova esplicitamente nominata in un’opera famosa, l’Improbatio. Ma oggi, anche grazie ad una attività di recupero della figura del frate da parte della sua comunità di origine, è consolidato l’uso di Francesco d’Appignano.
Tra i primi e più importanti studiosi dell’opera di Francesco, troviamo Padre Nazareno Mariani, instancabile ricercatore e traduttore, prima in latino e poi in italiano, dei manoscritti del frate, e per questo insignito della cittadinanza onoraria di Appignano del Tronto.
Grazie all’opera minuziosa di Padre Mariani, oggi possiamo leggere, anche in italiano, l’Improbatio contra libellum domini Iohannis qui incipit Quia vir reprobus, le Quaestiones super metaphysicam ed i Commentarii in quatuor libros Sententiarum, sicuramente tra le opere più significative di Francesco.
La vita e le opere
La vita di Francesco d’Appignano è in gran parte legata alla lunga lotta tra il papa Giovanni XXII e l’ordine francescano sul tema della povertà. Sull’osservanza alla lettera della rigida Regola scritta da Francesco d’Assisi, le discussioni nascono con il Santo ancora vivente: è noto come già dagli inizi si fa avanti un’interpretazione più mitigata ed accessibile, che renda più praticabile il francescanesimo ad un ampio numero di seguaci.
Nel 1230, Gregorio IX emana una Bolla che accoglie le richieste di questa corrente e dispone una distinzione tra proprietà ed uso: i frati non possono possedere nulla, ma hanno l’usufrutto delle cose necessarie per vivere, studiare, predicare.
Naturalmente i più rigorosi interpreti della Regola “sine glossa” del santo di Assisi, che prenderanno l’appellativo di Spirituali, si trovano in fermo disaccordo.
Le determinazioni del concilio di Lione del 1274 ed i provvedimenti di Niccolò III nel 1279, servono solo a rimandare l’esplodere della contestazione.
Gli Spirituali, diffusi ormai in Provenza, nella Toscana e nelle Marche, pur nelle difficoltà loro poste dai vertici dell’Ordine, con l’elezione al soglio pontificio di Bonifacio VIII nel 1294, vedono annullate le concessioni di Celestino V e addirittura si sentono dichiarare eretici: sono così costretti a ritirarsi negli eremi più nascosti dell’Italia centrale e meridionale.
L’elezione del papa Giovanni XXII nel 1316, non migliora certo le cose, soprattutto per la contemporanea elezione a Ministro Generale dell’Ordine di Michele Fuschi da Cesena. Le due autorità agiscono da subito fermamente contro gli Spirituali, ed il papa emette la Costituzione che li obbliga all’obbedienza all’Ordine.
Ma già pochi anni dopo, e qui siamo nei tempi di Francesco d’Appignano, la questione del possesso dei beni riesplode, in via quasi accidentale, riaprendo il dibattito sulla distinzione, introdotta da Giovanni XXII, tra beni non consumabili e beni consumabili: il cibo, il vino, la moneta, il vestiario sono beni che si consumano con l’uso, e dunque di essi i frati possono essere ritenuti proprietari, in contrasto con il voto di povertà.
Il Capitolo Generale dei Frati Minori, nel 1322, ribadisce formalmente che Cristo e gli Apostoli nulla avevano posseduto, né in comune, né in privato. Francesco d’Appignano sottoscrive il documento. Sul finire dello stesso anno, il papa Giovanni XXII condanna questa proposizione come eretica.
Lo scontro aperto
Il ministro generale Michele da Cesena, sospettato di tramare contro il papa in accordo con Ludovico IV, detto il Bavaro, e convocato ad Avignone per essere sottoposto a processo, è costretto a un atto di aperto dissenso. Nell’aprile del 1328, alla presenza di Francesco d’Appignano e di Guglielmo da Ockham, scrive una protesta in nome dell’Ordine e suo personale.
La sera del 24 maggio 1328, Michele da Cesena, in rottura completa con Giovanni XXII, disobbedendo agli espliciti ordini di lui, in compagnia di alcuni aderenti, tra i quali il nostro Francesco d’Appignano e Guglielmo di Ockham, fugge da Avignone e si rifugia a Pisa sotto la protezione di Ludovico il Bavaro, imperatore scomunicato.
In seguito alla fuga, il papa depone dalla carica il ministro generale e lo scomunica insieme con tutti i suoi complici. Per tutta risposta, nel febbraio del 1329, alla presenza dell’antipapa Niccolò V, nominato dall’Imperatore, Giovanni XXII viene dichiarato eretico, e dunque scomunicato e deposto: nella piazza di Pisa si brucia la sua immagine.
Proprio a Pisa, Michele da Cesena pubblica la sua seconda protesta contro il papa, e della quale abbiamo una duplice redazione: una più ampia, detta Appellatio Pisana maior o in forma maiori, del 18 settembre, e un’altra più breve, tratta dalla prima, detta Appellatio Pisana minor o in forma minori, del 12 dicembre. In chiusura della Minor, sono riportati i nomi di coloro che firmano la protesta: Francesco d’Ascoli è il primo.
Il frate è ormai nell’occhio del ciclone. Agli inizi del 1329, arriva alle orecchie del papa l’informazione che Francesco intende recarsi a Parigi per fare opera di proselitismo: con lettera del 6 febbraio, diretta a Elia de Nabinal, egli, dopo aver esposto i progetti di Francesco, “fautor Michaelis de Caesena”, comanda che venga catturato.
Sembra che questa non fosse la sola missione compiuta da Francesco d’Appignano per conto della dissidenza: egli è sicuramente presente a Napoli nel 1321, come consigliere del re Roberto.
È risaputo che Roberto, secondo Dante “re da sermone”, aveva più di un’ambizione di letterato e di erudito, anche riguardo alla questione che riguardava la povertà dei francescani; non è improbabile che Francesco fosse suo consigliere nelle aggrovigliate diatribe che si disputavano sulla povertà e che, nella composizione del suo Tractatus de paupertate, ci sia stata qualche collaborazione del suo consigliere.
Alla fine del marzo 1329, Ludovico il Bavaro lascia Pisa per dirigersi verso la Baviera e si stabilisce a Monaco, con i frati fuggiaschi nel loro convento: anche Francesco è del gruppo.
Nel capitolo generale di Parigi del giugno 1329, viene eletto ministro generale, in luogo di Michele da Cesena, deposto dal papa, Guiral Ot (Geraldus Odonis), amico di Giovanni XXII, che, nella sua lettera a tutto l’Ordine, carica di disprezzo e di astio verso i transfughi, ragguagliando i frati sul processo e sulla condanna di Michele e dei suoi aderenti, parla anche di Francesco d’Ascoli e lo definisce sarcasticamente “sacrae theologiae doctor indoctus”.
Naturalmente i dissidenti non riconoscono valida l’elezione, come invalida giudicano la deposizione di Michele da Cesena, e si sforzano di dimostrarlo in un libello nel quale narrano l’intera vicenda dal loro punto di vista: di tale scritto Francesco d’Ascoli è uno dei collaboratori.
All’Appellatio in forma minori risponde intanto Giovanni XXII il 16 novembre 1329 con la “constitutio” Quia vir reprobus. Proprio per controbattere e per replicare alla risposta del papa, Francesco firma nel 1330 la sua Improbatio.
Con l’Appellatio di Michele da Cesena e con la risposta di Giovanni XXII, i due campi opposti sono attestati su due sponde di incomunicabilità e di guerra: i documenti sono pieni di disprezzo, di astio, di ingiurie reciproche.
La confutazione
Con questo spirito e con tale animosità avviene la confutazione o, come oggi si dice, la contestazione (improbatio) dell’ultimo intervento papale in una situazione già irrimediabilmente compromessa, che comporta la revisione critica, negativa, delle precedenti bolle pontificie, manifestazioni del magistero a rovescio del “papa eretico” e deposto dalla carica.
Il severo giudizio sul papa, espresso da Francesco, è condito da epiteti che a quel tempo valevano la vita: “testa di drago”, “pazzo”, “nemico di Cristo”, ecc.
La lettura della precisa trascrizione e traduzione di Padre Mariani rende molto bene l’impeto contrario della contestazione.
Il 19 maggio 1331, giorno di Pentecoste, si riunisce nella cittadina francese di Perpignano il capitolo generale. Michele da Cesena invia ai capitolari una lettera con la quale cerca di giustificare il suo operato e accusa contemporaneamente il successore: la polemica trascende ai fatti personali, alle accuse e forse alle calunnie.
La replica del ministro generale Guiral Ot è immediata: risponde a Michele da Cesena con una lettera nella quale gli imputa una serie di delitti, e accusa Francesco d’Ascoli di essere un “proprietario” per aver portato una somma di denaro in un suo viaggio da Como verso Monaco; inoltre ribadisce la sentenza del capitolo generale di Parigi del 1329, che sancisce l’espulsione dall’ordine del predecessore con tutti i suoi fautori, con tutte le sanzioni annesse, tra le quali il carcere perpetuo e la privazione dell’abito religioso.
Alle accuse risponde analiticamente Michele da Cesena, e a quella contro il suo seguace replica abilmente con un’argomentazione “ad hominem”. Vera o falsa che sia l’insinuazione, il Cesenate non nega che il suo amico e aderente abbia compiuto il viaggio: segno che questi si dava parecchio da fare, operando attivamente anche nella Germania.
È certo, ad ogni modo, che il frate appignanese, nel 1331, si trova a Monaco con i suoi amici, e il convento nel quale essi dimorano, per la presenza contemporanea di tante personalità eminenti di diverse nazioni, offre l’immagine di una piccola università internazionale.
Il 4 dicembre 1334 muore Giovanni XXII, e il 20 seguente viene eletto Benedetto XII.
L’imperatore tenta una riconciliazione con il nuovo papa e nel 1336 rilascia delle credenziali ai suoi emissari delegati a trattare: nel documento sostiene di essere un soldato, ignorante di disquisizioni teologiche e di questioni sulla povertà di Cristo, e precisa di aver accettato alla sua corte Michele da Cesena, Francesco d’Ascoli e compagni senza alcun fine di politica religiosa.
Il 12 maggio 1337, il papa invia la bolla Illius licet al capitolo generale dei frati minori radunato a Cahors, nella quale, mentre si rallegra della disponibilità mostrata da alcuni seguaci di Michele da Cesena a rientrare nel seno dell’ordine e della Chiesa, fa esplicito divieto di riammettere all’obbedienza, anche se lo avessero chiesto, Michele da Cesena, Francesco d’Ascoli, Guglielmo di Ockham, ed altri gravemente compromessi con l’antipapa Niccolò V.
Il 6 agosto dell’anno seguente, nella dieta di Francoforte, Ludovico di Baviera afferma la sua ortodossia, protestando contro le ingiuste sanzioni di Giovanni XXII, mantenute dal successore. In quella occasione, proclamando il diritto al governo dell’impero senza l’interferenza della santa sede, Ludovico fa solenne appello a un concilio: alcuni degli antichi autori sono espliciti nell’attribuire la protesta del Bavaro a Francesco d’Ascoli e Guglielmo di Ockham.
Siamo al 1338, dieci anni sono trascorsi dalla ribellione: due papi si sono succeduti e nulla è cambiato. I ribelli pensano al loro destino, che da un momento all’altro può diventare tragico. Qualcuno, come si è visto, ha intrapreso la via del ritorno.
Il 23 agosto, Michele da Cesena, radunati i suoi aderenti, presenta una nuova protesta a nome di tutto l’ordine, che egli ancora si illude di rappresentare, contro Benedetto XII: si associano e firmano i suoi sostenitori che conosciamo, Henricus de Thalem, Guillermus de Ockam et Bonagratia de Pergamo, con vari altri: non c’è la firma di Francesco d’Ascoli. Forse è assente da Monaco, in viaggio per propaganda; oppure, più probabilmente, è già stato catturato o si è consegnato spontaneamente all’inquisizione.
Il processo
Del suo processo, che è ancora in corso il 6 febbraio 1341, abbiamo soltanto dei frammenti: il procedimento si tiene a Narbona durante il pontificato di Benedetto XII. Presidente del tribunale e giudice è Pietro Gomez de Barroso, cardinale e vescovo di Sabina.
L’”examen iudiciale” va avanti a lungo e condotto appassionatamente, analizzando, oltre alle questioni di principio sulla povertà di Cristo e degli apostoli e sui problemi connessi, che si possono leggere nella lmprobatio, anche le più piccole accuse e comportamenti personali dell’imputato, passando in rassegna tutta la vita precedente. Come si può vedere dal resoconto, sia pure largamente incompleto che ci è pervenuto, l’imputato si difende energicamente e puntigliosamente, riaffermando i punti controversi e contestati, cercando di dimostrare di essere sempre rimasto nell’ambito dell’insegnamento cattolico ed ecclesiale come era stato proposto dai sommi pontefici, mentre alle altre accuse risponde che sono false e confezionate dal padre della menzogna.
Nel dibattimento Francesco sostiene che il primo processo, quello cioè presieduto da Guiral Ot in occasione del capitolo generale di Parigi del 1329, e che aveva comportato la condanna di Michele da Cesena e dei suoi sostenitori, e quindi anche sua, è invalido perché il giudice non aveva regolare investitura e le procedure prescritte non erano state osservate; le accuse erano false e senza alcun valore giuridico, quindi la sentenza di condanna, emessa con leggerezza, è iniqua e invalida, e come tale deve essere annullata.
Si potrebbe pensare che Francesco d’Ascoli sia irremovibile nelle sue idee e che quindi la sua sorte sia segnata: al contrario, egli viene assolto, dopo aver rilasciato un’ampia e completa ritrattazione di quanto aveva sostenuto, nelle parole e negli scritti, nei dieci anni precedenti e durante il processo. Francesco viene inoltre reintegrato nei suoi diritti e rimesso in libertà.
A conferma della sua conversione, egli legge alla presenza di Clemente VI una confessione o professione di fede che è tutto il contrario di quanto aveva sempre affermato. Il papa ne è talmente soddisfatto che la sceglie come formula preliminare di riammissione per tutti i dissidenti che avessero voluto rientrare nella Chiesa e nell’Ordine.
Francesco non solo ha cambiato opinione, ma in seguito riprende la penna in mano per sostenere ciò che un tempo aveva tenacemente combattuto contro l’eresia del vecchio amico Michele da Cesena, morto già il 29 novembre 1342. Il fondamento della nuova convinzione è che il capitolo di Perugia, la decisione del quale era stata la causa di tutta la questione, non aveva avuti chiari i concetti di “habere et non habere civiliter” e che i documenti dei diversi pontefici, da lui tante volte citati per mostrarne la reciproca repugnanza, erano discordi solo in apparenza, mentre nella sostanza concordavano.
È qui appena il caso di notare lo stridente contrasto tra le opinioni precedenti e le dottrine esposte nella professione di fede: ciò significa che il processo a suo carico deve avere avuto una svolta, con una confessione sincera e con una resa senza condizioni. Inoltre la sua conversione deve essere stata profonda ed autentica per scrivere il Tractatus de sua poenitentia, un trattato sulla interpretazione da dare ai tanti dubbi esposti nell’lmprobatio, su cui, in mancanza dell’opera, andata perduta, Padre Mariani ha rintracciato alcune citazioni.
Il ritiro
Da quel momento sulla vita di Francesco scende il silenzio. Nulla sappiamo di preciso sul resto della sua esistenza e sulla sua morte. Possiamo solo ipotizzare un ritorno nella sua Appignano, grazie alle note di un cronista, certo tardivo (metà del XVII secolo) ma sicuramente affidabile: Padre Ilario Altobelli ci assicura che il papa Sisto V fece trasferire alla Biblioteca Vaticana i libri di Francesco rimasti in Appignano. E’ lecito supporre che i libri fossero insieme con il loro proprietario ed è fondato affermare che il trasferimento fosse conseguente alla sua scomparsa.
Di recente ci si è spinti ad ipotizzare che il corpo che giace nella cripta della chiesa di S. Angelo, conosciuta dagli appignanesi come Chiesa dei Frati, sia di frate Francesco. Sarebbe interessante poterlo verificare.
Il Centro studi Francesco di Appignano, nato nel 2001 nel Comune piceno, ha promosso negli anni, sei convegni di studio per approfondire la figura del frate ed il contesto storico in cui è vissuto.