Carbon di Ascoli: in principio fu la Sice
La ciminiera più alta della Carbon, quella che gli anziani chiamano ancora Sice, continuerà sicuramente a svettare nello skyline di Ascoli Piceno del prossimo decennio. Ai suoi piedi, però, un giorno non ci sarà più il grigio complesso industriale per la produzione di grafitati di carbonio ma, forse, un nuovo quartiere residenziale.
E’ questo lo scenario dell’ex area Carbon, una superficie di ben 27 ettari al centro della città, ormai da anni dismessa da sito produttivo e da tempo al centro del dibattito circa la sua effettiva destinazione.
Sul quel terreno è scritta la storia di una intera città, del suo lavoro, del suo sacrificio.
Una storia che inizia nei primi anni del secolo scorso, precisamente nel 1907, quando la Società Industriale Italiana aprì ad Ascoli un opificio industriale per produrre carburo di calcio, diretto dall’ingegnere Giovanni Tofani.
La Sii utilizzava forni elettrici e per questo si decise di impiantare uno stabilimento per la produzione di elettrodi. Fu così costituita la Società Italiana dei Carboni Elettrici.
Nel 1920 i proprietari della Sii e della Sice vennero travolti da gravi problemi finanziari.
La Sice venne acquisita dalla Società Italiana dei Forni Elettrici, costituita a Roma nel 1897. Alla Sii subentrò l’Unione Esercizi Elettrici e la fabbrica ascolana divenne Società Industriale Carburo.
La crisi del 1929 rischiò di portare alla chiusura della Sice. Il salvataggio fu ad opera della ditta tedesca Siemens Plania che, con consistenti investimenti tecnologici, portò lo stabilimento ascolano ad altissimi livelli di produzione.
Il secondo conflitto mondiale condizionò non poco l’attività dello stabilimento, di proprietà tedesca. Alla fine della guerra, infatti, la fabbrica venne sequestrata dai soldati inglesi, in attesa di determinazioni sul suo destino.
Solo all’inizio del 1949 una cordata di imprenditori italiani, guidati dal potente cavaliere Giuseppe Azzaretto (successivamente entrato nelle cronache per le discusse vicende della Banca Rasini) acquisì lo stabilimento modificando la ragione sociale in Elettrocarbonium Spa.
L’attività riprese a pieno ritmo tanto che nel 1950 si ricostituì anche l’alleanza con la Siemens Plania.
I consistenti investimenti tecnologici degli anni ’70 portano la fabbrica di Ascoli Piceno a livelli di produzione e di eccellenza di livello europeo, creando le condizioni per i successi di fatturato ed occupazionali degli anni ’80.
In quel periodo la Elettrocarbonium offriva lavoro a più di 900 unità interne ed a circa 200 dell’indotto, con un fatturato annuo che superava i 40 miliardi di lire.
Nel 1992 l’Elettrocarbonium venne inglobata dalla multinazionale Sgl Carbon: a quella data lo stabilimento di Ascoli Piceno forniva il 40% della produzione mondiale di silicio metallico.
La metà degli anni ’90 segnò l’inizio del lento ed inesorabile declino dell’insediamento e dei suoi livelli occupazionali.
Nel frattempo uscirono dal silenzio tutti i gravi problemi di natura ambientale relativi all’inquinamento atmosferico ed alla salute dei lavoratori.
La chiusura definitiva dello stabilimento avvenne nel 2007 con una pesante eredità: sui 27 ettari dell’insediamento da bonificare, 600 mila metri cubi di capannoni e attrezzature industriali da smantellare.
Magari qualcosa anche da mantenere, in una logica di archeologia industriale, come fu indicato nel primo progetto della Facoltà di Architettura Unicam di Ascoli.
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