A Spelonga, con Serafino e la Festa Bella
Spelonga è una piccola frazione del Comune di Arquata del Tronto in provincia di Ascoli Piceno. Si raggiunge lasciando la Via Salaria a Trisungo e salendo per la strada che, oltre la frazione di Faete, attraversa uno stupendo bosco di castagni.
Collocata a poco meno di 1000 metri di altitudine, ricadente all’interno di due diversi parchi nazionali (il Parco Nazionale dei Monti Sibillini e quello del Gran Sasso e Monti della Laga), Spelonga gode di un paesaggio unico: la rocca di Arquata del Tronto, il monte Vettore, un ampio scorcio della valle del Tronto.
Varie e talvolta originali sono le teorie sull’origine del toponimo Spelonga. Si va dalla presenza degli alti pioppi destinati alla lavorazione (dal vocabolo sassone “aspe”), al naturale riparo che il paese ha offerto sin dall’antichità (dal latino “aspis”, scudo) fino al più comune richiamo al termine “spelonca” e quindi grotta.
Le prime notizie documentate su Spelonga risalgono al 578: il duca di Spoleto conquista il Piceno ed i cittadini fuggono sui monti, in particolare nell’attuale territorio arquatano, dove Spelonga viene citata esplicitamente.
NB Il borgo di Spelonga, come tutti quelli lungo la via Salaria tra Amatrice ed Acquasanta, è stato pesantemente colpito dagli eventi sismici del 2016 e 2017. Molte delle cose qui descritte sono rimaste danneggiate e non sono dunque attualmente visibili.
In giro per il borgo
Attualmente nella frazione vivono circa 300 persone. Il nucleo storico, benché ancora non pienamente recuperato, ha una particolarità derivante dai blocchi in pietra arenaria finemente lavorati e spesso decorati. Furono i mastri lombardi, operanti nella zona fin dal 1400, ad introdurre nella zona montana le tecniche costruttive per l’edificazione di strutture solide ed anche termicamente adeguate.
Ecco dunque, attraversando il piccolo centro, le mura in pietra, le scale esterne, i loggiati, i portali con iscrizioni e bassorilievi.
Tra gli edifici sicuramente più caratteristici figura casa Calisti Coletti Fontana, edificio degli inizi del 1500 che conserva intatta l’architettura del tempo. Il palazzetto, con decorazioni semplici ma eleganti alle finestre, mostra ancora la struttura dell’antico ballatoio in legno chiamato in dialetto “bufirie”: un balcone coperto dal prolungamento del tetto, sorretto da pilastri in pietra.
Altre abitazioni mostrano segni di un passato illustre: ricorrente è l’immagine a bassorilievo di un angelo in volo ma non mancano decorazioni floreali, simboli della devozione religiosa e iscrizioni. Singolare, in quest’ultima categoria, quella del 1516 che tramanda il nome di Antonio Mariano associato alle immagini di un agnello e di un angelo.
Subito fuori dal borgo si trova anche la piccola e graziosa chiesa di Sant’Emidio, del XV secolo.
La chiesa di Sant’Agata
Il cuore del paese è la chiesa parrocchiale di Sant’Agata, edificata nella seconda metà del 1400 con uno stile essenziale e lineare.
L’interno è ad unica navata con un bel soffitto con capriate a vista.
La chiesa ospita molte opere qui raccolte negli anni per via del decadimento di altri luoghi di culto, in particolare la chiesa di Santa Maria di Loreto a Collepiccioni, demolita nel 1933.
L’altare maggiore, del 1631, realizzato in legno di noce intagliato, ha al centro una Madonna col Bambino in terracotta policroma di Sebastiano Aquilano. Racconta il canonico Frascarelli che nel 1849 il famigerato Roselli, capitano della Guardia Repubblicana, dopo aver visto la Vergine dal volto afflitto ed aver interrogato gli spelongani presenti (“Questa immagine ha la Spelonga?”) desistette dall’incendiare il paese.
Un altro altare ligneo, con dipinti i quindici misteri, fatto costruire nel 1643 dalla confraternita del Santissimo Rosario è situato sulla parete di destra, vicino all’ingresso laterale.
Sull’altare è collocata una statua della Madonna con Bambino di Berardino Provenzano del 1638.
Sull’altro lato della navata troviamo l’altare del 1600 dedicato a Sant’Antonio da Padova.
Alcuni degli affreschi della fine Quattrocento, che provengono dalla chiesa demolita di Santa Maria sono stati realizzati da Panfilo da Spoleto. Sulla parete destra c’è la Madonna di Loreto, del 1483, a sinistra san Bernardino, del 1482, sant’Agata e san Leonardo abate corredati con gli strumenti del loro martirio.
Varie opere, dal 1500 in poi, sono state dipinte da pittori locali, tra cui alcuni seguaci dello stile di Cola dell’Amatrice.
Troviamo Santa Caterina, Santa Chiara e Santa Lucia
Una Madonna col Bambino
un Cristo Morto
un santo benedicente
e un Sant’Antonio abate.
Pregevoli i due affreschi, pure provenienti dalla chiesa di Santa Maria di Collepiccioni, ora messi su telaio: raffigurano Cristo in trono e un insieme di angeli.
Un affresco dedicato all’esaltazione della croce va segnalato anche per il graffito lasciato da un visitatore, tal Grifone Ranieri di Norcia, il 4 settembre 1598. Non si tratta di un caso: dal 1583 la “prefettura della montagna” con capoluogo Norcia, voluta da Pio V per il controllo dell’area montana, aveva infatti incluso anche Arquata e Spelonga.
Nel presbiterio ci sono le immagini dei Quattro Evangelisti che erano presenti nelle lunette della vecchia chiesa di Santa Maria.
La bandiera strappata ai Turchi
La chiesa ospita inoltre la vera particolarità di Spelonga: una bandiera da combattimento, con stemma musulmano, strappata dagli spelongani ad una nave turca, in occasione della Battaglia di Lepanto del 1571. Il trofeo, custodito in una teca di vetro, è costituito da un drappo di stoffa rossa con tre mezzelune ed una stella gialla al centro.
La tradizione vuole che un eroe spelongano di nome Carlo Toscano, strappata la bandiera, la riportò sino a Spelonga, addirittura ancora macchiata di sangue. Recentemente si è affermata l’idea, poco credibile, che fu invece una donna, Maria Toscano, travestita da uomo e imbarcata al posto del fratello, a strappare la bandiera agli “infedeli”. Se da una parte gli archivi parrocchiali documentano una presenza dei Toscano a Spelonga nei primi del 1600, dall’altra sono scarse le prove documentali testimonianti la presenza di spelongani a Lepanto nell’ottobre del 1571. E’ invece certo che alla battaglia parteciparono alcuni ascolani: tra questi il capitano Antonio d’Ascoli e l’assistente cappuccino alle truppe padre Fulgenzio Parisani. L’ipotesi che alcuni spelongani fossero aggregati al drappello ascolano al seguito del capitano ascolano Guido Guiderocchi o di Alessandro Farnese è pure suggestiva ma da provare.
La Festa Bella
In attesa di conoscere dagli studi in corso (in particolare con ricerche presso gli archivi vaticani) e da quelli futuri la reale provenienza della bandiera turca, la stessa è oggi al centro di una delle rievocazioni più suggestive del Piceno: la Festa Bella.
La manifestazione si svolge ogni tre anni (in programma quest’anno dal 31 luglio con il taglio dell’albero al 14 agosto con la sua alzata): non essendo al momento praticabile la piazza davanti alla Chiesa di S. Agata, l’evento si svolge su un tratto di strada adiacente. Viene ricostruita la sagoma di una nave, con un albero maestro di circa 30 metri sul quale sventola una copia della bandiera turca. Per arrivare a questo risultato, però, è necessario un lungo e faticoso lavoro preparatorio. Nei primi giorni di agosto i più esperti boscaioli del paese guidano nel bosco un centinaio di uomini per tagliare la pianta da cui verrà ricavato l’albero maestro. La cerimonia della partenza è un momento emozionante della Festa Bella: a mezzogiorno il suono delle campane saluta, nella piazza, gli uomini che staranno in montagna per tre giorni.
Una volta abbattuto e ripulito l’albero, infatti, questo verrà trasportato in paese esclusivamente a braccia. Per l’occasione si torna ad usare un attrezzo della tradizione boscaiola, il crocco o uncino, in dialetto “crucche”: il gancio veniva fissato ai tronchi per permettere il traino agli animali da soma. Per la Festa Bella, invece, sono solo gli uomini a curare il trasporto, guidati da un caposquadra che ha anche il compito di ritmare il faticosissimo trascinamento al grido di “oh forza!”.
Solo dopo tre giorni, appunto, l’albero arriva sulla piazza di Spelonga dove, nei giorni successivi e ancora una volta solo con la forza delle braccia e l’ausilio di funi e scale, verrà issato trionfalmente con la cosiddetta “alzata”.
Una volta alzato l’albero sarà possibile allestire la riproduzione della galea e potranno iniziare i festeggiamenti: rievocazioni, incontri culturali, rassegne e mostre, degustazioni, celebrazioni religiose, spettacoli e, non ultime, esibizioni di “canto a braccio”, la ormai rarissima e preziosa declamazione di poesie improvvisate in ottava.
Una interessante documentazione sulle antiche origini della manifestazione le offre un articolo comparso sul settimanale cattolico “La Vita Picena” nel settembre del 1936. Nel testo, che pure descrive quanto accade ancora oggi, si fa riferimento alla festa per la “Madonna della salute” e non si cita la bandiera della battaglia di Lepanto.
Serafino
Vale una visita improntata alla curiosità anche la Taverna di Serafino, locale adiacente alla chiesa che fu teatro delle riprese del film “Serafino” di Pietro Germi con Adriano Celentano.
La pellicola, girata nella primavera del 1968, ebbe uno straordinario successo di pubblico malgrado i problemi di censura: Il film, vietato ai minori di 14 anni, dopo essere stato proiettato per molti anni nelle sale cinematografiche di seconda visione, fu trasmesso per la prima volta in tv (da una emittente privata) il primo gennaio 1980. Il dvd del film, completo delle scene ancora oggi tagliate nei passaggi televisivi in fascia protetta, è uscito solo nel 2013.
Germi cercava “il ritorno alla vita semplice dei bei tempi”: per questo scelse Spelonga e le zone limitrofe e affidò le parti secondarie agli abitanti del luogo.
Sempre in tema, curiosa, anche se inverosimile, la storiella raccontata da don Adalberto Bucciarelli su “Il nuovo Piceno” nel novembre 1975 sui due compari che volevano “parlar fino”: furono molte le famiglie arquatane che cercarono una occupazione a Roma dalla prima metà del 1800 fino a metà del 1900 ma gli spelongani, anche nella semplicità del tempo, non erano certo così sprovveduti.